sabato 2 settembre 2017

PROWLERS - "FREAK PARADE" (2016)








Sin dalle note introduttive del primo brano "Golden Bricks" per poi proseguire con "Fantastic Fanatic",  si "respira" l'odore di una cantina in cui si sono consumati vinili di hard rock settantiano, primissima New Wave of British Heavy Metal, insomma in cui si è respirato il rock, quello vero; si denota tutto l'amore di questo combo pesarese per le sonorità che hanno fatto la storia di tutta quella musica che ha giocato (come un dignitoso bastian contrario)  da contraltare più aggressivo e colto al pop maggioritario altrimenti smielato e lecchino (di quello che invece strizzava spesso l'occhio alle vendite dietro pegno di ballad sgonfie di tono ma che si concretizzassero in emozioni più rapidamente codificabili dalla massa) per inseguire invece una passione più sanguigna, più selvaggia, fatta sì di chitarre rocciose ma senza per questo rinunciare alla melodia, ma anzi sublimandola, sia nelle linee chitarristiche, molto orecchiabili, immediate e stupendamente vintage nelle sonorità, che in quelle vocali, efficaci  e ben realizzate, che nei motivi  tastieristici, mai banali né limitati al solo accompagnamento, ma sempre attenti a ritagliarsi un ruolo comunque di primo piano nel tessuto armonico che complessivamente giunge all'ascoltatore. Il riff iniziale invece di "Turtle Man" ci ricorda i tempi più brillanti, ma in parte anche le avventure recenti più riuscite, degli Iron Maiden, ossia di quella band (e lo si evince anche dal nome stesso del gruppo in questione) che forse ha maggiormente giocato un ruolo di primo piano nel magico e talvolta costruttivo influsso genetico, non necessariamente spregevolmente clonistico, che è l'ispirazione e l'influenza musicale. Il brano poi però recupera prontamente il proprio binario dell'originalità che contraddistingue il quintetto, verso un proprio traguardo meritevole di attenzione. Se ci si lascia cullare invece dalle note di "Joseph Merrick" si entra in una dimensione mentale che ci trasporta in un viaggio nel tempo scostante dalla realtà attuale, in cui ci si dimentica di vivere questo altrimenti tedioso 2017, in cui guardando gli oggetti attorno, seppur familiari, ci si potrebbe convincere di vivere negli anni '70, oppure, in una lettura maggiormente onirica, di percorrere una strada diritta all'infinito, con negli occhi l'immagine di un orizzonte inarrivabile che si staglia plumbeo nella polvere di un deserto del sud del Texas. Il disco prosegue senza grossi cali di tensione fino al brano, secondo me, meglio riuscito del disco: "Fighting All Again", un incipit efficace quasi alla Ac/dc ma subito completato da tastiere di supporto accattivanti che aprono il suono verso una dimensione più areata e meno rarefatta, e linee vocali molto curate e definite, di grande impatto. Una maggiormente purpleiana "Not By My Side" irrompe subito dopo a farsi ricordare tra i momenti migliori del platter, riportandoci a quel rock ispirato dalla musica classica ma anche dal blues che tanto educò la formazione di Jon Lord e soci. Da ultimo, come nelle migliori opere che si rispettino, un outro qui dal sapore vagamente medievale, ma anche dal colore esotico-bizantino, ci lascia con le sue splendide note acustiche, gradualmente verso il silenzio di una fine che pone l'ultimo sigillo su di un lavoro davvero lodevole, ispirato ed emozionante.

VOTO: 8

Emmanuel Gravier Menchetti.

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